CarbFix: La soluzione al problema dell’inquinamento?

Uno dei maggiori problemi che le prossime generazioni si troveranno ad affrontare è quello dello smaltimento della CO2 prodotta.  Sono sempre maggiori gli sforzi per ridurre le emissioni,  tanto è vero che un gruppo di ricercatori islandesi e americani sta pensando ad una soluzione alternativa: convertire l’anidride carbonica gassosa prodotta in composti organici solidi.

Negli scorsi decenni sono stati proposti innumerevoli progetti che consistevano nell’iniettare e intrappolare fisicamente l’anidride carbonica nella roccia. La maggior parte di essi prevedono l’utilizzo di arenaria, una pietra sedimentaria facilmente reperibile, ma con una criticità: c’è il concreto rischio che non riesca a contrastare la pressione della CO2, crepandosi e lasciando quindi fuoriuscire il gas nell’atmosfera. L’elevato costo stimato, in aggiunta alle difficoltà tecniche, ha scoraggiato gli investitori impedendo ulteriori sviluppi.

 

Per lo meno fino al 2006, quando un team di ricercatori islandesi, francesi e americani ha pensato di impiegare il basalto in sostituzione all’arenaria. La caratteristica di questa roccia vulcanica che ha spinto i ricercatori a pensare a un suo utilizzo nel progetto è la presenza di  determinati metalli coinvolti in reazioni chimiche che trasformano l’anidride carbonica in calcite, ovvero carbonato di calcio solido. Questo risolverebbe il problema delle fuoriuscite gassose e ridurrebbe notevolmente il volume occupato, abbattendo in questo modo i costi. Per verificare la fattibilità del progetto è stato condotto un esperimento a pochi chilometri da Reykjavik, in una zona ricca di giacimenti di basalto e con CO2 che fuoriesce naturalmente dal terreno come prodotto dell’intensa attività vulcanica. L’esito di questo esperimento è stato più che soddisfacente, in quanto si sono raggiunti gli obiettivi preposti.

 

Sei anni dopo è stato condotto un esperimento su larga scala: i ricercatori hanno iniettato 220 tonnellate di CO2 negli strati di basalto compresi  tra i 400 e gli 800 metri sotto la superficie. In secondo luogo hanno introdotto dell’acqua per facilitare lo svolgimento delle reazioni e al contempo monitorato il livello di pH e altre condizioni chimiche, confrontandole poi con quelle delle pozze vulcaniche vicine. Dopo un anno e mezzo le analisi chimiche hanno mostrato un risultato sorprendente: oltre il 95% del carbonio immesso si era trasformato in calcite e altri composti solidi. Una percentuale estremamente superiore a quella prevista da Juerg Matter, secondo cui la carbonatazione completa  non si sarebbe verificata prima di una decade. Questo significa che la CarbFix, così è stato denominato il progetto, potrebbe essere un ottimo metodo per immagazzinare la CO2 sotto terra senza rischi e in tempi apprezzabili.

 

Secondo gli esperti sarebbe necessario condurre l’esperimento su scala ancora più ampia per verificare che tutta la CO2 immessa si mineralizzi, nonostante i sovra citati esperimenti, in ambienti più ridotti e controllati, non abbiano evidenziato criticità. Il professor Benson dell’Università di Stanford ha così dichiarato: ”se la carbonatazione crea minerali che possono tappare i buchi del basalto, questi potrebbero intrappolare la CO2 nella zona di immissione invece di lasciarlo disperdere nelle rocce”.

Le problematiche che si aprono ora hanno carattere economico, infatti le agenzie che avrebbero l’interesse a investire su questo progetto non lo fanno perché non otterrebbero un grande profitto nel breve termine.

Il rischio? Che il progetto non riesca ad avere lo spazio che meriterebbe e che non riesca ad essere commercializzato.

 

Sitografia:

 

http://www.sciencemag.org/news/2016/06/underground-injections-turn-carbon-dioxide-stone

 

https://web.archive.org/web/20111021093135/http://www.or.is/English/Projects/CarbFix/AbouttheProject/

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